L’eternità d’istante: la coscienza della mortalità e la consonanza di essere

La coscienza della propria esistenza e, con essa, della propria mortalità, è un evento psichico che può manifestarsi in ogni momento della vita umana. Spesso, la routine quotidiana e le sovrastrutture culturali fungono da barriera che tiene a bada questa presa di coscienza, ma vi sono momenti in cui tale verità si impone con una forza ineludibile. In questi attimi, l’individuo si scopre nella sua condizione essenziale: un essere gettato nel mondo, senza scopo e senza senso, vulnerabile, esposto alla caducità, alle malattie, alla finitezza delle relazioni, delle esperienze, delle vite e alla solitudine dell’esistere.

L’angoscia esistenziale, il terrore di perdersi nelle infinite possibilità di essere, la vertigine della apparente libertà, il dubbio sul proprio valore e sul senso della continua fatica di può essere paralizzante. siamo anche chiamati a progettare noi stessi, a dare un significato alla nostra esistenza attraverso le nostre azioni e decisioni. Essere gettati significa anche essere esposti al tempo e alla finitezza: l’uomo esiste come un essere temporale, consapevole del fatto che la propria vita è destinata a concludersi. Essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode) lo definiva Heidegger: la morte non è solo un evento futuro, ma una dimensione sempre presente che influenza il modo in cui viviamo. Condizione paradossale dell’esistenza umana: da un lato, siamo determinati da un tempo e uno spazio di esistenza che non abbiamo scelto; dall’altro, abbiamo la libertà di dare un senso alla nostra vita: c’è quindi continuamente il rischio di rifugiarci nella quotidianità anonima (Das Man, il si impersonale), evitando vivere autenticamente, e di assumerci la responsabilità della nostra esistenza.

Tuttavia, una possibile cura, per quanto temporanea o fragile, ma infinitamente ripetibile, sembra risiedere nella vicinanza autentica con un altro essere umano che ci aiuti a liberarci dalle illusioni e dal conformismo, per affrontare l’esistenza con lucidità e consapevolezza, accettando la mortalità e facendo scelte che rispecchino la nostra irripetibile unicità. Non si tratta del semplice conforto, ma di un riconoscimento più profondo: l’incontro tra due sensibilità affini, due esseri singolari che percepiscono il mondo senza filtri, nella sua crudele verità e nella sua struggente bellezza. Ci sono gli altri a ricordarci che la vita è altro, che la vita supera e ci supera. Questa comunione dell’essere, più che sentimentale, è esistenziale: l’altro non è semplicemente qualcuno che amiamo, ma qualcuno che ci rispecchia nella nostra stessa modalità di essere, l’altro su cui appoggiamo l’incertezza oscillante della nostra stessa vita.

L’altro può essere come uno specchio nel quale l’Io si forma e si riconosce. Ma qui non si tratta solo di riconoscimento speculare: è piuttosto un’identità di esperienza, una consonanza profonda tra due esistenze che si trovano, per un istante, a essere meno sole. In questa relazione, il tempo si sospende: ciò che è finito assume una qualità infinita, e l’attimo diventa assoluto. Incontro di “eternità d’istante”: un momento che, pur essendo effimero, possiede un’intensità tale da trascendere la sua stessa contingenza. La relazione diventa la “custodia dell’altro nella nostra solitudine”, sottolineando la tensione tra il bisogno di legame e l’irriducibile distanza tra gli esseri umani. È il luogo dove l’io cessa di essere per sé e si apre alla responsabilità. E conosce il mondo attraverso il mondo dell’altro da sé.

Non parlo delle relazioni durature ma soprattutto di tutti quegli incontri umani che lasciano un segno, centinaia di incontri passanti, di attimi umani fuggenti. Quelli di cui non ci accorgiamo.

L’importanza degli incontri fugaci risiede nella loro capacità di rivelarci qualcosa di essenziale sulla nostra esistenza. donare un senso inatteso alla nostra vita, anche se per un solo istante. Questi attimi di contatto fugace ci ricordano che la bellezza dell’esistenza non risiede solo nelle relazioni che durano, ma anche in quei momenti di pura autenticità in cui due anime si sfiorano senza trattenersi: quegli attimi, pur nella loro evanescenza, contengono una forma di assoluto. Anche se quegli incontri non hanno avuto un seguito, la loro memoria resta viva e contribuisce a definire chi siamo. L’effimero diventa eterno nel ricordo e nella sua capacità impastare di sguardi, sorrisi, parole, gesti, condivisioni, la storia della nostra storia- Condominio di vite è la nostra vita, E le vite passanti ci abitano e ci restituiscono un po’ di senso oltre i ristretti confini delle forme in cui trasciniamo le nostre giornate. Perché oltre i tristi limiti delle nostre esistenze, oltre i circoscritti confini delle norme sociali tra cui ci affanniamo, oltre i doveri che obbligano il nostro lavoro e le nostre famiglie, oltre la fine di ogni giornata e ogni esperienza, c’è l’incontro con l’altro che annuncia ciò che è nuovo e ciò che sempre rinasce.

L’eternità d’istante è dunque il paradosso della vita umana: la condizione mortale, quando condivisa in una profonda consonanza, può generare un senso di assoluto. Non si tratta di negare la caducità, ma di abitarla con intensità. Questo attimo di connessione, per quanto fugace, non è meno reale di qualsiasi eternità. In esso, due esseri si trovano insieme nella bufera dell’esistenza e, anche solo per un istante, vincono il tempo.

Leave a Reply