Prendersi cura di sé, perché ci si prende cura dell’altro: Umanità (professionalità) laicità

Formazione permanente vuol dire prendersi cura responsabilmente di sé, proprio perché ci si prende cura dell’altro, anzi soprattutto perché ci si prende cura dell’altro! Ognuno, prima di tutti il professionista che lavora in relazione di cura con l’altro, deve cercare di essere ogni giorno migliore di ciò che è, per capire e interpretare sempre meglio i segni e i problemi che ogni complessa relazione porta con sé. In questo processo di crescita continuo e permanente un ruolo centrale lo riveste la formazione.

La formazione deve essere ovviamente una formazione professionale, perché è necessario aggiornarsi sulle teorie pedagogiche, psicologiche, sulle modalità e gli stili relazionali, sulla normativa vigente, su nuove possibilità organizzative, su progetti e innovazioni… Ma per essere più ricchi e più nuovi – e quindi pronti all’incontro di sempre nuovi uomini, donne, bambini, ricchi della loro umanità – bisogna coltivare la propria umanità. Infatti non è importante quello che si dice o quello che si fa, ma quello che si è all’interno della relazione di cura. Oltre a curare la qualità di quello che si dice o modificare quello che si fa (formazione professionale), bisogna curare quello che si è, per prendersi cura a propria volta con maggiore efficacia degli altri.

Seneca alla fine del De ira dice: “Stiamo già esalando il respiro! Ma per ora, finché viviamo, restiamo tra gli uomini, coltiviamo l’umanità!” Fino alla fine, anche quando si arriva alla fine della carriera, con la sensazione magari di essere già formati e che nulla di nuovo può essere appreso, bisogna continuare a coltivare la propria umanità, che non significa solo acquisire conoscenze e competenze; soprattutto vuol dire praticare la propria vita e la vita altrui con curiosità e desiderio di contaminazione reciproca. Coltivare è un verbo che ha il senso della fatica: zappare arare seminare raccogliere… E infatti è un processo di incontro e conoscenza ricco ma faticoso. Coltivare l’umanità vuol dire leggere, vedere film, viaggiare perché così è possibile vivere più di una vita, perché attraverso le storie che leggiamo, vediamo, viviamo, è possibile vivere le vite degli altri, moltiplicare le possibilità di essere, conoscere ed essere più di quello che si è. Far abitare gli altri dentro di sé vuol dire allargare la propria vita: abbiamo solo una vita e spesso non basta, ci lamentiamo che il tempo a nostra disposizione sia poco… Ebbene la vita non si può allungare, ma si può allargare!

L’incontro reale è però l’incontro privilegiato e migliore per intercettare la propria e l’altrui umanità e farla crescere, allargando l’esistenza. Il primo atteggiamento da conservare e coltivare per incontrare l’altro è la laicità che è, prima di ogni altra cosa, rispetto per l’essere nel mondo di ciascuno, rispetto per la diversità, fuori da ogni ideologia, da ogni fede, da ogni credenza, da ogni formazione. Tutto questo deve concorrere all’incontro vero con l’altro e impedire di mettere l’altro sotto categorie già determinate (quel bambino è così… quel paziente è così) . L’incontro umano e professionale non vuole “perfezionare” l’altro, né gli impone modelli impossibili da ricreare. Ignora maggioranze minoranze o maggioranze, abitudini e stili di vita più apprezzati e consolidati: esiste solo l’unicità dell’Altro e il modo unico di stabilire una relazione custodire e preservare l’unicità dell’Altro insieme con la propria

Per coltivare l’umanità serve quindi, la capacità di giudicare criticamente ogni credenza che non può essere mai vincolante solo perché è stata trasmessa dalla tradizione o perché è diventata familiare con l’abitudine. È necessario quindi pensare autonomamente senza lasciare questo compito a un’autorità, ma per fare questo bisogna educarsi a ragionare insieme sulle proprie scelte senza limitarsi a scambiare semplici opinioni. Nel reciproco riconoscimento dobbiamo progressivamente abbandonare la tentazione di giudicare alla luce delle nostre credenze, dei nostri fini e delle nostre personali aspirazioni. Essere laici nel lavoro e nella relazione vuol dire proprio questo: lasciare le convinzioni consolidate sullo sfondo per riuscire a farsi contaminare dalle convinzioni altrui, per cercare di allargare il proprio modo di leggere il mondo e l’animo umano, nella disponibilità negoziare sempre la propria visione. In sintesi: avere delle idee, evitando di essere soggetti a un’ideologia, insegnando che le menti non sono mai isolate ma si incontrano e reciprocamente si plasmano e si trasformano.

Spesso poi dai comportamenti non uniformi, dalle credenze che sembrano distanti e non condivisibili, dalle opinioni difformi dalla maggioranza è possibile trovare a trovare spunti evolutivi. Come i nomadi, che non hanno cultura scritta e non hanno patria, cioè non hanno sicurezze e abitudini stabili, bisogna sforzarsi di essere continuamente cangianti e predisposti alla novità

Formazione continua e permanente attraverso la coltivazione della propria umanità è protendersi verso l’umanità del bambino o del paziente guardando, allo stesso tempo, alle garanzie offerte dal confronto continuo con la propria comunità di riferimento (colleghi o compagni della nostra passione) per crescere da soli e insieme nel tentativo di comprende sempre meglio la complessa umanità propria e altrui. Per fare questo bisogna concepire sé stessi non solo come semplici membri di un gruppo, ma anche, e soprattutto, come esseri umani legati ad altri esseri umani da interessi comuni e dalla necessità di un reciproco riconoscimento. Non più e non solo italiano straniero, laureato diplomato, credente ateo, di sinistra o di destra, sistemico o cognitivista, montessoriano o steineriano, ma uomini e donne con gli stessi bisogni e la stessa voglia di essere amati e accolti

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