Per la guerra perpetua…

Per la guerra perpetua…

Kant nel 1795 scrisse “Per la pace perpetua”, un’opera filosofica che ipotizzava le condizioni giuridico filosofiche per impedire il verificarsi di qualsiasi conflitto futuro. A più di due secoli di distanza, il conflitto nella Striscia di Gaza, è l’ultima drammatica tappa di una guerra lunghissima tra due popoli che si sono promessi di distruggersi e che continuano a combattersi da decenni in una guerra perpetua.

Con la sua devastante eredità di morte, distruzione e sofferenza, la guerra nella striscia di Gaza è un esempio tragico di come la guerra possa lasciare cicatrici profonde non solo nei territori coinvolti, ma anche nelle menti e nelle esperienze delle persone. La psicologia sociale ci offre strumenti preziosi per comprendere le dinamiche di odio, divisione e polarizzazione che non solo alimentano i conflitti, ma persistono anche a lungo termine, contribuendo a perpetuare un ciclo di violenza intergenerazionale.

La Psicologia del Conflitto: Noi contro Loro

Uno dei concetti fondamentali della psicologia sociale è la teoria dell’identità sociale di Henri Tajfel, che spiega come gli individui tendano a classificare sé stessi e gli altri in gruppi (“noi” e “loro”). Ogni gruppo tende ad unirsi su alcuni valori di identità comune e a percepirsi come fortemente legato da identità rigidissime di lingua, cultura, tradizioni, storia comune, che diventano ancora più coinvolgenti e rassicuranti per ogni gruppo sociale che identifica un nemico. Un nemico rappresenta infatti una minaccia da combattere, un’identità opposta che definisce per contrasto la propria identità e le dà un valore supplementare per il dovere che il gruppo sociale sente di dover difendere i propri valori, la propria cultura, la propria sopravvivenza addirittura. Il gruppo sociale, in questo caso la nazione, un popolo, sente di dover definire e difendere ancora di più i propri confini psicologici prima che territoriali, per non essere invaso, per affermare sé stesso anche e soprattutto negando legittimità ed esistenza all’altro da sé. In contesti di conflitto, questa divisione si acuisce, portando alla deumanizzazione dell’altro. Nel caso del conflitto israelo-palestinese, entrambe le parti spesso percepiscono il gruppo avversario non solo come nemico, ma come una minaccia esistenziale. Questa polarizzazione è amplificata da narrazioni collettive che perpetuano il risentimento e giustificano la violenza.

La deumanizzazione è un meccanismo psicologico potente: rappresentare l’altro come inferiore o persino non umano consente di giustificare azioni che, altrimenti, sarebbero considerate inaccettabili. L’odio reciproco è alimentato dalla propaganda, dalla narrazione storica e dalla trasmissione culturale, creando un ciclo di sfiducia e ostilità che si autoalimenta.

Le Cicatrici Psicologiche della Violenza

Le vittime dirette del conflitto, in particolare i bambini, subiscono traumi psicologici profondi che possono perdurare per tutta la vita. L’esposizione alla violenza, alla perdita di familiari e alla distruzione delle proprie comunità è associata a disturbi come il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), l’ansia e la depressione. Tuttavia, le conseguenze vanno oltre gli individui. I traumi collettivi influenzano intere comunità, rafforzando un’identità condivisa basata sul dolore e sulla resistenza, ma anche sull’odio e sul desiderio di vendetta.

Nella Striscia di Gaza, molti bambini crescono in un ambiente segnato dalla guerra, senza accesso a un senso di sicurezza o normalità; un’infanzia segnata da stress cronico può influire sullo sviluppo cognitivo ed emotivo, perpetuando modelli di comportamento aggressivi e una visione del mondo centrata sulla sfiducia.

La Trasmissione Intergenerazionale dell’Odio

Un aspetto particolarmente insidioso delle guerre è la loro capacità di perpetuare il conflitto attraverso le generazioni. La teoria dell’apprendimento sociale di Albert Bandura spiega come i comportamenti e gli atteggiamenti vengano appresi osservando gli altri, in particolare figure di riferimento come genitori, insegnanti e leader. Nei contesti di guerra, i bambini imparano presto a identificare il nemico e ad associare l’altro a concetti negativi.

Nel caso del conflitto israelo-palestinese, la trasmissione intergenerazionale di narrative di vittimizzazione e vendetta è particolarmente evidente. I giovani crescono ascoltando storie di sofferenza e ingiustizia subite dai propri cari, interiorizzando un’identità collettiva che li lega indissolubilmente al conflitto. Questo processo è ulteriormente rafforzato da sistemi educativi e mediatici che spesso enfatizzano la separazione e la rivalità, piuttosto che la comprensione e la riconciliazione.

Il Ruolo della Comunità Internazionale e della Riconciliazione

La psicologia sociale non solo analizza le radici del conflitto, ma offre anche strumenti per promuovere la pace e la riconciliazione. Programmi di contatto intergruppo, basati sulla teoria del contatto di Gordon Allport, hanno dimostrato di poter ridurre i pregiudizi se condotti in condizioni di parità, cooperazione e obiettivi comuni.

La teoria del contatto, sviluppata da Allport negli anni ’50, sostiene che l’interazione tra membri di gruppi diversi può ridurre i pregiudizi e migliorare le relazioni intergruppo. Tuttavia, per essere efficace, il contatto deve soddisfare alcune condizioni fondamentali:

  1. Parità di Status: Entrambi i gruppi devono percepire un livello di uguaglianza durante l’interazione. Se uno dei gruppi è percepito come superiore o inferiore, il contatto potrebbe invece rafforzare i pregiudizi.
  2. Obiettivi Comuni: I gruppi devono lavorare insieme per raggiungere scopi condivisi. Questo crea una dinamica di collaborazione piuttosto che di competizione.
  3. Cooperazione: Le interazioni devono basarsi su una collaborazione reale, in cui i membri dei gruppi lavorano fianco a fianco, contribuendo equamente al raggiungimento degli obiettivi.
  4. Supporto Sociale e Istituzionale: Il contesto in cui avviene il contatto deve favorire e legittimare l’interazione positiva. Ad esempio, leader politici, religiosi o comunitari possono giocare un ruolo cruciale nel sostenere tali iniziative.

Nel caso della Striscia di Gaza, queste iniziative sono spesso ostacolate dalla mancanza di fiducia e addirittura di riconoscimento reciproco e dalle condizioni di vita ormai ridotte allo stremo della popolazione palestinese. I due popoli che si combattono covano poi un odio che sembra inestinguibile e che continua ad alimentarsi con il desiderio di vendette per le stragi subite in passato e continuamente rinnovate nel presente. E ognuno dei due popoli pensa che la distruzione dell’altro sia la condizione necessaria per la propria sopravvivenza.

Soprattutto però secondo i parametri delineati dalla teoria del contatto di Allport, la pace appare difficilmente raggiungibile nel contesto del conflitto israelo-palestinese. Israele possiede una posizione di forza superiore, sostenuta da alleanze internazionali potenti e da una robusta infrastruttura politica e militare. Al contrario, i Palestinesi soffrono di una debolezza interna, con una leadership frammentata, risorse limitate e uno scarso sostegno da parte della comunità internazionale. Inoltre nella striscia di Gaza hanno subito quasi 50mila morti, non hanno le minime risorse alimentari per sopravvivere, mancano di assistenza sanitaria di base, ricevono con molta difficoltà addirittura gli aiuti umanitari loro destinati dalla comunità internazionale…Questa asimmetria di potere mina le condizioni fondamentali necessarie per un dialogo equo e costruttivo, come la parità di status e la cooperazione autentica, rendendo estremamente complessa la costruzione di un ponte verso una riconciliazione duratura.

E questa asimmetria trasforma una guerra, che è sempre odiosa, drammatica e ingiusta, in un intollerabile massacro!

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